Libri su Giovanni Papini

2008


Antonino Di Giovanni

Il pragmatismo messo in ordine
Giovanni Papini
dalla filosofia dilettante al diletto della filosofia

Capitolo:
Un'esperienza giovanile?, pp. 13-20
11-12-(13-1415-16-17-18-19-20)



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In un recente convegno in cui si è discusso della figura e dell'opera di Papini 1, Enrico Ghidetti ha sostenuto che “dietro l'ultimo Papini si riaffaccia Gianfalco”, volendo così sottolineare l'importanza della produzione giovanile e la centralità delle esperienze editoriali di quegli anni nell'intero svolgimento del suo percorso umano e intellettuale. L'osservazione senz'altro risulta del tutto condivisibile, nella prospettiva di una accurata ricostruzione dell'itinerario intellettuale di Papini, condivisibile e confermata da precisi riferimenti che è dato raccogliere dalla testimonianza dell'autore stesso. Emblematiche mi sembrano le annotazioni registrate nei diari della maturità — in particolare quelle dell'estate del 1947 — risalenti, perciò, al periodo in cui veniva precisata la prima versione di titolo per l'opera che in seguito sarà editata come Passato remoto.
   L'anziano Papini pensò alla sua giovinezza — ormai lontana — come al migliore e più fruttuoso periodo della sua vita.
   Proprio nell'estate del '47 — il 28 giugno — Papini tornò a meditare sulla propria “primavera” e quasi si sentiva ringiovanire, riscoprendo, nella forte spinta alla scrittura che gli proveniva da un'antica aggressività, i sentimenti che lo animarono durante gli anni del «Leonardo». Infatti, Papini dice: «M'è venuta di getto — nonostante il caldo bestiale che ammazza — una stroncatura di Jean Paul Sartre. M'è parso di esser tornato indietro di trent'anni. L'umore aggressivo, proprio dei giovani, non è ancora del tutto morto in me» 2.
   Poi — dopo qualche giorno (18 luglio) — troviamo un'annotazione ancor più interessante, si tratta proprio della prima menzione di


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Passato remoto. In quest'opera, com'è anche indicato nel sottotitolo, Papini parla delle vicende — sia personali che non — a suo parere più significative degli anni 1885/1914. In Passato remoto ogni ricordo assomiglia molto ad un rimpianto, c'è tutto il rammarico dell'autore per la lontananza di quel tempo in cui si trovò a combattere dure “battaglie”, in cui ebbe importanti incontri e riscosse grandi successi frammisti a severe critiche, purtroppo — si avverte nelle sue parole — un periodo andato.
   E quel tempo è definito: Il mio tempo.
   «Risento la voglia — afferma Papini — di lavorare. Stendo la prima trama di un nuovo libro, che vorrei intitolare Il mio tempo che non sarà un'autobiografia ma una raccolta di ricordi su fatti politici, sulla vita intellettuale, sugli uomini da me conosciuti, su aspetti del costume della città e della campagna. Io non sarò il protagonista, come nei soliti libri di memorie, ma il testimonio di quel che può essere un certo senso e valore storico generale. Questo libro deve essere scritto in tono semplice, familiare, cordiale e, se occorre, satirico e poetico» 3.
   Il 16 settembre, al precedente titolo — Il mio tempo — veniva preferito Passato remoto e il rinascente sentimento giovanile, che caratterizzava il periodo, presto si affievoliva. Papini si biasimava da solo con tanto di esclamazioni e tornava a valutare — più o meno negativamente — il rifiorire del suo ardore giovanile. Cercava di farsi forza dicendo: «Mi accorgo d'essere ancora spensierato come un ragazzo. Debbo terminare la Vita di Michelangiolo e Il giudizio universale (opera gigantesca e conclusiva), mi sono impegnato a scrivere un libro sul Diavolo (per Longanesi) e in questi tempi ho messo mano a tre libri nuovi: Passato remoto, Tizio e Magog! Giovanni! Non sei più giovane. Metti il capo a partito!» 4.
   Quegli anni giovanili furono decisivi per la formazione, l'opera e la fortuna della figura di Papini. Per ciò che scrisse in quegli anni, Papini è stato molto apprezzato e studiato in Italia e all'estero, per ciò che uscì dalla sua penna in quegli anni l'intera sua opera e il suo pensiero — nuovamente attenzionati — sono pronti a tornare d'attualità. D'altronde è indubbio, e accettato ampiamente dalla critica,


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il fatto che si trattò di un periodo di straordinaria fecondità per l'intero panorama culturale italiano. Era il “tempo delle riviste” e del “partito degli intellettuali” — secondo la denominazione coniata da A. Asor Rosa — e Giovanni Papini fu certamente uno dei protagonisti nel panorama culturale della prima metà del Novecento.
   L'autore di Un uomo finito dev'essere considerato — insieme all'amico Prezzolini — una delle voci in quel periodo più incisive ed autorevoli del nostro paese e, per di più, importante non soltanto in relazione alle vicende culturali della nostra penisola.
   Personalmente, ho deciso di approfondire la natura del pragmatismo di Giovanni Papini perché con la sua particolarissima adesione al movimento e la reinterpretazione della dottrina pragmatista non può essere definito né modesto interprete, né, peggio ancora, pappagallesco ripetitore. Egli stesso si sentiva un pragmatista nato. Si è scritto molto su quel periodo, ma poco sul pragmatismo di quel periodo. Si sono ripetute in troppe occasioni delle formulette e degli aggettivi in maniera probabilmente acritica e irriflessiva, e mi sembra opportuno, in relazione alle mie possibilità, cercare di sgombrare il campo da certi equivoci.
   Papini si sentiva un pragmatista nato e — anche quando tanta acqua era ormai passata sotto i ponti —, nel maggio del 1913, ribadiva: «Io [...] ero predisposto al pragmatismo» 5.
   In questi anni qualcosa sta cambiando, il pragmatismo italiano torna ad essere studiato. In relazione a Papini, lo testimoniano non soltanto le numerose ristampe delle sue opere e le molte pubblicazioni di testi e carteggi inediti, ma anche l'operosità e la dedizione dei molti studiosi che frequentano l'Archivio Papini presso la Fondazione Primo Conti di Fiesole. Eppure — dopo la morte di Papini — la parabola della sua fortuna storiografica iniziò a incurvarsi rapidamente verso il basso e l'interesse nei confronti della sua opera, sia degli specialisti che del grande pubblico, andò scemando. Carlo Bo, a tal proposito, scrive: «Ho conosciuto molto bene Giovanni Papini e Domenico Giuliotti, due scrittori oggi ingiustamente dimenticati e per i quali non è ancora venuta l'ora della resurrezione, come invece è già avvenuto per altri scrittori di quel tempo che hanno goduto di una riscoperta. Soprattutto per Papini il silenzio


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è andato crescendo dopo la sua morte, ma per la verità era già cominciato prima, alla fine degli anni trenta. E questo soprattutto per ragioni politiche, essendosi lo stesso Papini mostrato più fascista di quanto non fosse in realtà» 6. Di recente, anche Mario Richter ha sostenuto che: «Dopo il 1945, le vicende storiche condannarono impietosamente Papini e Soffici — tutt'e due diversamente consenzienti, anche se con molte energiche riserve, al regime fascista e tutt'e due all'epoca influenti e celebri, non soltanto in Italia — a una specie di sopravvivenza, certo non priva di qualche benevolo riconoscimento, ma pur sempre sopravvivenza, alla quale la cultura del dopoguerra si adoperò comunque ad opporre altri modelli e altre personalità, programmaticamente orientando le nuove generazioni verso altre proposte e altri gusti» 7. Lo stesso Richter ha sottolineato che: «Nel secondo Novecento, Papini e Soffici si trovarono appunto ad essere rapidamente sospinti verso una marginalità che di sicuro non corrispondeva alla portata del loro lavoro letterario e artistico, alla loro primaria funzione di rinnovamento (anche stilistico) della letteratura italiana e all'oggettiva efficace influenza che in vario modo avevano esercitato su autori oggi a tutti noti e da tutti celebrati. A tener viva sul piano storico-critico la fiamma papiniana provvidero soprattutto in quegli anni, fra gli altri, Bo e Vettori, seguiti da Isnenghi con un suo equilibrato volumetto del “Castoro” e, con l'acume critico che tutti gli riconoscono, da Luigi Baldacci, autore fra l'altro di un eccellente “meridiano” che raccoglie il meglio del primo Papini. [...] Adesso è forse possibile riconsiderare con più pacati sentimenti tutta quella passata e drammatica stagione della nostra cultura, della quale indubbiamente Papini e Soffici furono alcuni dei principali responsabili» 8.
   Sulla necessità di riesaminare la “vicenda” papiniana, si è pronunciato, negli stessi termini di Richter, anche Giorgio Luti, il quale afferma: «Sembra giunto il momento per una equilibrata riconsiderazione storica della figura e dell'opera di Giovanni Papini. Sgombrato


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il campo da persistenti stereotipi — pro e contro che fossero —, si può forse avviare oggi un definitivo bilancio storicamente attendibile di un personaggio che come pochi altri del Novecento italiano riflette, per usare le parole di Mario Isnenghi, la condizione e l'itinerario, la coscienza e il ruolo dell'intellettuale italiano del primo Novecento» 9. Venticinque anni fa le cose stavano diversamente e, in occasione del centenario della nascita di Giovanni Papini, da molti studiosi si sentivano inviti a rivedere soltanto alcuni aspetti della produzione celebrata. Tra gli intervenuti, Michele Ciliberto segnalava “una ripresa di interesse” su un periodo particolare dell'attività papiniana — quello giovanile — e, durante i lavori per la prima giornata del Convegno fiorentino del 1982, iniziava così la sua relazione: «Negli ultimi anni si è avuta una ripresa di interesse nei confronti della figura e dell'opera di Giovanni Papini. Con una caratteristica: l'attenzione critica si è concentrata, fondamentalmente, sull'attività dei primi quindici anni del secolo. Sono sintomatiche, in questo senso, le ristampe più recenti: il “Meridiano” mondadoriano comprende le Opere dal “Leonardo” al futurismo. Si apre con i saggi e le ricerche sul pragmatismo e si chiude con un testo, Troppa critica, uscito originariamente in “Novissima” nel marzo 1912. Restano dunque sullo sfondo, almeno per ora, l'opera e gli scritti di Papini successivi alla prima guerra mondiale: quelli del ventennio fascista, in primo luogo. E una scelta comprensibile, connessa alla persuasione che la sua originalità e incidenza nella cultura e nella vita italiane siano da collocare nel primo quindicennio del secolo, e che l'esperienza della “conversione” prima, dell'adesione al fascismo poi, siano meno interessanti, sia dal punto di vista specifico dell'esperienza papiniana, che da quello complessivo della storia degli intellettuali italiani del Novecento» 10. Ebbene, è il Papini filosofo e organizzatore di cultura quello che ha suscitato nuovamente l'interesse


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degli studiosi, ma — personalmente — ritenendo che Papini rimase filosofo per tutta la vita, penso che selezionare (ed esclusivamente per motivi ideologici) un periodo della sua vita piuttosto che un altro sia scorretto e non giovi alla comprensione della sua opera.
   Prima di giungere al pragmatismo di Papini, è indispensabile sottolineare che il pragmatismo italiano — crocevia, spesso inesplorato, dove si sono incontrati stimolanti e originali orientamenti filosofici — non fu un “tutto” organico. Anzi — com'è noto — date le differenti interpretazioni che i pragmatisti italiani proposero delle massime metodologiche provenienti dai filosofi statunitensi e alla luce delle loro diverse formazioni (per lo più maturate in percorsi autodidattici), il pragmatismo, anche nella sua versione italiana, può definirsi un movimento unico soltanto con riserva.
   Un fronte unico del pragmatismo si delinea e si distingue soltanto attribuendo molta importanza a una limitata e non troppo omogenea base teorica (probabilmente identificabile più come una disposizione mentale che con un elenco di principi) o caratterizzando il movimento attraverso la segnalazione di una certa unità d'intenti e, in particolare, nella scelta dei nemici della dottrina (forse l'unico vero collante tra i vari temperamenti dei suoi esponenti). A questi ultimi, dunque, può essere verosimilmente dato il merito di aver tenuto assieme (anche se per breve tempo) l'esiguo gruppo dei pragmatisti italiani.
   Oggi, purtroppo, nonostante un rinnovato interesse per l'opera di Papini, pochi si interessano del suo pragmatismo e quasi nessuno focalizza il proprio interesse sul reale ed indubbio contributo che egli diede alla dottrina. Infatti, Papini, pur essendo ricordato e studiato spesso nei panni del giovane ed irrequieto direttore del “Leonardo” — quindi, proprio durante gli anni in cui era un pragmatista, anzi, il leader dei pragmatismi italiani — o come l'aggressivo e incostante filosofo futurista — e risale proprio al periodo futurista la sistemazione da lui operata dei propri scritti Sul pragmatismo 11-  , non riceve le debite attenzioni che invece meriterebbe. Ma la comunità dei ricercatori, si sa, è spesso distratta da “altre cose”, è attirata verso sempre più esotiche tematiche e le sue preferenze seguono logiche insondabili.


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   Antonio Santucci ha giustamente sottolineato il fatto che: «Sui giovani che si sentivano defraudati da un Risorgimento non portato a termine, che si ribellavano ai compromessi escogitati da Giolitti, s'è accumulata una bibliografia sterminata» 12. Ma, è altrettanto vero — se dobbiamo concentrarci sul giovane Gianfalco — ciò che sostiene Giorgio Luti, il quale afferma: «Ecco io credo che si debba partire di qui: prendere le mosse dalla consapevolezza che su Papini c'è ancora molto da dire nel bene e nel male, e che soprattutto c'è da impostare un bilancio storicamente attendibile di una personalità complessa che ha inciso profondamente sulla genesi della cultura italiana del Novecento» 13. Personalmente, penso che di una produzione imponente — come quella di un poligrafo del calibro di Papini 14 — intere sezioni possono rimanere perlopiù sconosciute o trascurate in sede storiografica anche per motivi esterni all'opera, si pensi ad esempio all'oblio derivante da scelte editoriali. Poi, è bene precisare che se tra gli studiosi dell'opera papiniana è normale citare il Papini pragmatista — cioè il Papini studiato e apprezzato anche da grandi filosofi coevi come Bergson e James — non è altrettanto usuale andare sempre a fondo e, soprattutto se si tratta di studiosi cattolici, si tende a minimizzare o a ignorare l'esperienza pragmatista del Papini (forse per il suo — più dichiarato che reale 15 — ateismo e per il suo deciso e prepotente anticlericalismo).


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   Dal canto mio, non ho mai pensato — in maniera rigida e perentoria — ad un Papini che di li fin li fu un questo o un quello, né, soprattutto, che una certa parte della sua opera sia migliore di un'altra, ma — spero risulterà chiaro fin da subito — quando parlo di un “giovane Papini”, intendo più che altro una sua originale e precipua disposizione mentale, che lo contraddistinse rispetto ai contemporanei.


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